Una recente sentenza della Corte di Cassazione spiega che il tragitto per recarsi al lavoro va pagato in busta paga.
Il rapporto di lavoro si basa da sempre sul rispetto reciproco tra le parti. Ma per costruire questo legame, semplice solo in apparenza, serve una buona dose di fiducia e la volontà di venire incontro alle esigenze altrui. Da quando la pandemia ha fatto capolino nelle nostre vite, uno dei temi più caldi resta la possibilità di lavorare in smart working. Certo, al di là dell’atteggiamento spesso contrario delle aziende, non tutte le professioni possono essere svolte da remoto.

Eppure, ciò che accomuna chi lavora in cantiere e chi in ufficio è la distanza da percorrere per lavorare. Questo tempo, volenti o nolenti, rappresenta comunque un sacrificio legato al lavoro, anche solo per raggiungere il posto dove iniziare la giornata.
Ogni situazione è diversa e va valutata con attenzione, ma una recente e curiosa sentenza della Corte di Cassazione potrebbe rimettere in discussione le regole sull’orario di lavoro per moltissimi dipendenti, almeno quando si parla di spostamenti effettuati per conto dell’azienda.
Il viaggio è tempo di lavoro: lo dice la Cassazione
Non c’è più spazio per equivoci: la Corte di Cassazione ha stabilito con chiarezza che il tempo di viaggio va pagato, punto e basta. Una sentenza recente (la n. 16674/2024) ha messo in discussione quelle prassi aziendali che cercavano di tagliare i compensi per gli spostamenti dei lavoratori. Il caso riguardava alcuni tecnici addetti a interventi presso i clienti, obbligati a partire dalla sede aziendale con il mezzo di servizio e a muoversi verso le abitazioni degli utenti.

Eppure, un accordo interno aveva previsto che solo i tragitti superiori a 30 minuti complessivi venissero conteggiati in busta paga, con tanto di controllo tramite geolocalizzazione.
I giudici hanno smentito in modo netto questa impostazione, chiarendo che il tempo di viaggio rientra a pieno titolo nell’orario di lavoro. Non importa se la distanza sia breve o lunga: dal momento in cui il dipendente prende il veicolo aziendale e riceve indicazioni sul primo cliente, quel tempo è lavoro e quindi va retribuito. Qualsiasi accordo sindacale che riduca questo diritto è nullo, perché la legge (art. 1 d.lgs. 66/2003) stabilisce che ogni periodo in cui il dipendente è a disposizione del datore rientra nell’orario lavorativo.
In pratica, se l’azienda ordina di andare da un cliente, tutto il tragitto – anche guidare in autostrada – è lavoro. Vale esattamente come il cosiddetto ‘tempo tuta’, il tempo necessario a cambiarsi, perché strettamente funzionale alla prestazione. E chi non paga rischia un ricorso con ottime probabilità di vittoria.