Secondo una ricerca condotta dallo psicologo Nathan Brooks, la psicopatia accomuna un dirigente su cinque.
Da anni si parla di leadership, ossia la capacità di guidare un gruppo e accompagnarlo verso gli obiettivi aziendali. Questo significa che il leader – che può essere un manager così come un dirigente – conosce i suoi dipendenti, li valorizza e promuove il lavoro di squadra, quello sano e performante.

Eppure, la realtà non è proprio così idilliaca, almeno non per tutti. Spesso ci si imbatte in leader senza cuore, che hanno come unico obiettivo il successo. Il loro. Ed è qui che sorge spontaneo chiedersi come facciano tali individui – magari nemmeno professionalmente più preparati di altri – a raggiungere obiettivi che molti professionisti, decisamente più portati, non riescono ad ottenere.
Può sembrare un’ingiustizia, o una raccomandazione. Ma come spiega uno psicologo, la linea tra competenze manageriali e psicopatia è alquanto sottile nelle dinamiche sociali. E chi sa giocare meglio, come sempre, vince.
Quando la mancanza di empatia diventa un vantaggio competitivo nell’azienda
C’è qualcosa di inquietante nei numeri emersi dalla ricerca del professor Nathan Brooks: il 21% dei top manager analizzati mostra tratti clinicamente rilevanti di psicopatia. Una percentuale che fa rabbrividire, se si pensa che è la stessa riscontrabile tra i detenuti. Ma cosa accade se quel distacco emotivo, quella totale assenza di empatia, non solo non ostacola la carriera, ma la favorisce?

Nel mondo aziendale contemporaneo, la pressione alla performance è continua e spesso spietata. E chi non prova ansia, chi non si ferma a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni, può sembrare perfetto per reggere il peso delle decisioni. Il dirigente psicopatico – manipolatore, lucido, immune al giudizio morale – non si fa scrupoli. E in molte organizzazioni, purtroppo, questo atteggiamento viene confuso con il carisma: basti pensare ai narcisisti.
Più che guidare, però, questi leader calcolano, e lo fanno molto bene. I colleghi diventano pedine, i collaboratori ostacoli o mezzi. E l’empatia? Vista come un freno, una perdita di tempo. Il problema è che questo meccanismo premia proprio chi è meno incline ai legami, alla cooperazione, all’umanità. Così si crea un sistema che seleziona e incorona i meno umani, trasformando i tratti disturbanti in vantaggi strategici.
Alla lunga, però, i danni si vedono. Le aziende si svuotano di fiducia, i team si frammentano, le persone si logorano. E a livello sociale, ci si abitua a convivere con un modello tossico, che normalizza l’anaffettività. Dunque sì, un dirigente su 5 mostra tratti tossici per l’azienda, ma a lungo andare è questo ciò che potrebbe portare alla sua rottura. Ne vale davvero la pena? E poi, chi raggira può chiamare ciò che raggiunge davvero successo? A noi la sentenza.